Cos’è il "Wabi Sabi" e il suo approccio con il design
Aggiornamento: 20 set 2022
Prediligiamo la patina del tempo,
ben sapendo che è prodotta da mani sudate,
da polpastrelli unti, da depositi di morte stagioni;
la prediligiamo per quel lustro, e quegli scurimenti,
che ci ricordano il passato, e la vastità del tempo.
Junichiro Tanizaki, 2000
È negli Stati Uniti che il 90% dei beni estratti e utilizzati per la fabbricazione di oggetti diventa spazzatura quasi subito, e la situazione non è sicuramente destinata a migliorare.
È anche compito di noi designer cercare di non assecondare l’idea di consumismo costante che porta le risorse ad essere destinate quasi immediatamente alla discarica: con l’arrivo degli anni 80 inizia ad affermarsi un nuovo modo di concepire il design all’interno della comunità progettuale, nasce infatti l’ecodesign: viene studiato e proposto un nuovo processo di produzione-consumo che da lineare (prodotto→discarica) diventa circolare rendendo così lo stato finale del prodotto "condizione iniziale" di una sua nuova modalità di essere, in poche parole stiamo parlando a tutti gli effetti di “riciclo”.
È da questo periodo che si inizia a dare importanza al riutilizzo degli oggetti, seppur rovinati, vecchi, o semplicemente passati di moda.
Circa 1000 anni prima di noi occidentali, in Cina questi concetti già esistevano; grazie a un gruppo di monaci buddisti costretti ad utilizzare quelle che erano le materie prime fornite dalla natura per la costruzione di piccole suppellettili (vasi, ciotole, ecc), comincia a prendere piede l’idea di un pensiero nuovo, quello che da quel momento fino ai giorni di nostri si chiamerà “wabi sabi”.
Tradurre letteralmente in una frase quello che esprimono le parole “wabi sabi” è praticamente impossibile: la parola “wabi” è legata a tutto ciò che è bello, ma a una bellezza connessa a parole come umiltà, imperfezione, asimmetria, terra cotta e grezza, foglie secche. È una bellezza emotiva, interiore e molto soggettiva.
“Sabi” invece esprime la bellezza e la serenità data dal trascorrere degli anni, quando gli oggetti mostrano sulle superfici le patine del tempo o i piccoli difetti.
Se si vuole dare una definizione generale potremmo dire che il "wabi sabi" è la bellezza delle cose imperfette, temporanee e incompiute, la bellezza delle cose umili e modeste, la bellezza delle cose insolite.
“Wabi sabi è dunque la bellezza delle cose appassite, erose, ossidate, graffiate, intime, ruvide, evanescenti, incerte, effimere. È una forma di bellezza che supera la dicotomia tra bellezza e bruttezza e tra ordinario e straordinario”.
Crispin Startwell
L’oggetto che più di tutti viene definito “emblema” della bellezza del wabi sabi è la "tazza Kizaemon" (XIV secolo), la quale prende il nome dal suo omonimo proprietario, dal valore attualmente inestimabile: si tratta di una semplicissima tazza di terracotta con la particolarità di essere sana, realizzata per uno scopo, e fatta per essere usata.
L’estetica del "wabi sabi" si manifesta probabilmente dai segni del tempo, dalle rotture e dalle piccole screpolature sulle superfici; è una tazza fatta da un uomo probabilmente molto povero, un monaco che l’ha realizzata per utilizzarla durante il corso di tutta la sua vita. È una tazza senza una vera personalità, realizzata senza prestare nessun tipo di attenzione stilistica da chi l'ha prodotta ma tutt'oggi integra e utilizzabile nonostante le sue imperfezioni dovute dai secoli.
L’interesse che il "wabi sabi" provoca agli occhi di moltissimi designer e artisti occidentali è decisamente crescente: quello che affascina di questa “filosofia” è probabilmente l’idea di accettare le imperfezioni dovute dalla transitorietà del tempo, nonché tutti i sentimenti e sensazioni che la accompagnano.
È anche vero che spesso in occidente si cade nel tranello di considerare solo il lato estetico di questa filosofia a spese di quello concettuale, ovvero ciò che realmente è l’anima di questa idea, avendo come conseguenza una semplice imitazione dell’originale che ha ben poco a che fare con la filosofia autentica.
Tra i moltissimi designer e studi che si occupano del tema mi sento di citarne tre abbastanza iconici, veri esempi di come un oggetto “finito” possa tornare a vivere acquistando (magari) ancora più fascino grazie alle sue imperfezioni:
In primis il designer Paolo Ulian che con il suo progetto “una seconda vita” cerca di trasmette un senso a quelli che possono sembrare dei semplici cocci di un centrotavola finemente realizzato, ma che in realtà una volta rotti diventano a loro volta contenitori.

La poltrona “Pompon” di “Con3studio”che utilizza gli scarti derivanti dalla lavorazione a telaio di altri prodotti per la composizione dell’intera poltrona.

E come non citare “Ecolo”, progetto iconico di Enzo Mari che fa decisamente sua l’idea stessa di riciclo trasformando dei semplici flaconi di plastica in vasi per fiori. Dopotutto chi non si è mai trovato nella situazione di dover mettere temporaneamente dei fiori in una bottiglia di plastica? Enzo Mari ufficializza questa trasformazione che da temporanea diventa duratura nel tempo.

Ci sarebbe molto altro da dire sul wabi sabi e su quanto possa aiutare la società di oggi a cambiare mentalità riguardo al consumismo: per fortuna le nuove generazioni di giovani hanno la mente molto aperta sull’argomento, probabilmente perché saranno loro a dover abitare il nostro pianeta in un futuro prossimo.
L'uso delle materie prime oggi deve necessariamente tener conto del problema dello smaltimento delle stesse, ed è secondo questa logica che i materiali di scarto diventano una risorsa da valorizzare esattamente come accade in natura, dove tutto rinasce.
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